Giobbe 14, 5 - 15
Se i giorni dell’uomo sono fissati, e il numero dei suoi mesi dipende da te, e tu gli hai posto un termine che egli non può varcare, distogli da lui lo sguardo, perché abbia un po’ di tranquillità, e possa godere come un operaio la fine della sua giornata.
Per l’albero almeno c’è speranza: se è tagliato, rigermoglia, e continua a mettere germogli. Quando la sua radice è invecchiata sotto terra, e il suo tronco muore nel suolo, a sentir l’acqua, rinverdisce e mette rami come una giovane pianta. Ma l’uomo muore e perde ogni forza; il mortale spira, e dov’è egli? Le acque del lago se ne vanno, il fiume viene meno e si prosciuga; così l’uomo giace e non risorge più. Finché non vi siano più cieli, egli non si risveglierà, né sarà più destato dal suo sonno.
Oh, volessi tu nascondermi nel soggiorno dei morti, tenermi occulto finché l’ira tua sia passata, fissarmi un termine, e poi ricordarti di me!
Se l’uomo muore, può egli ritornare in vita? Aspetterei fiducioso tutti i giorni della mia sofferenza, finché cambiasse la mia condizione: tu mi chiameresti e io risponderei, tu vorresti rivedere l’opera delle tue mani.
Un pensiero dalla predicazione
Abbiamo detto prima che Giobbe odia ed insieme ama Dio. In fondo il suo rapporto con lui è quello di un innamorato. Ed è proprio così. Giobbe è perdutamente innamorato del suo Dio, e il “folle sentimento” che ha per lui gli dà, all'improvviso, lo slancio per volare… appunto, la follia necessaria per tornare a sperare contro ogni speranza. Davanti al “no” che lo morte gli urla sulla faccia, l’essere umano non può sperare nulla. E Giobbe lo sa anche troppo bene. Ma il cuore, e soprattutto un cuore innamorato, ha una sua logica che la ragione ignora. Ed ecco, nel cuore di Giobbe s’accende come un bagliore, una luce remota, eppure vera, viva… E nel gorgo del varco della morte, questo bagliore si fa un faro in cima ad uno scoglio, si fa approdo e rifugio, si fa speranza di poter sperare: Dio, se vuole, può creare per me ed in me il fondamento per una speranza nel seno stesso della morte: “Oh, volessi tu nascondermi nel soggiorno dei morti, tenermi occulto finché l’ira tua sia passata, fissarmi un termine, e poi ricordarti di me”.
Se non è possibile – questo è lo strano pensiero che spunta nella mente e nel cuore di Giobbe – coltivare sulla terra una speranza che non sia in fondo solo rassegnazione, forse dal luogo stesso della morte, in quella misteriosa condizione che gli Ebrei chiamavano Sheol, forse da lì noi potremo vedere il volto propizio di Dio, dopo che egli ha scaricato sulla terra la sua ira. Sì, proprio lì, nel regno della morte, Dio potrebbe mostrarci il suo volto benevolo. È l’ardita, struggente visione che l’“occhio oscuro” di Giobbe, percorso come da un bagliore d’amore, vede sorgere dapprima incerta e poi sempre più chiara... ormai quasi un’aurora, innanzi a sé: “Se l’uomo muore, può egli tornare in vita? Aspetterei fiducioso tutti i giorni della mia sofferenza, finché cambiasse la mia condizione. Mi chiameresti, e io ti risponderei. Tu vorresti rivedere l’opera delle tue mani”.
C’è qui un meraviglioso cambiamento, un’umanissima contraddizione. Dopo avere pregato perché Dio lo dimentichi e gli consenta di vivere lontano dal suo sguardo indagatore, adesso Giobbe sogna che Dio si ricordi di lui nel seno della morte e lo richiami a vivere, perché lo “vuole rivedere”… perché, insomma, ha nostalgia di lui.
È davvero un’immagine ardita: in fondo, veniamo al mondo perché siamo stati pensati… potremmo anche dire “desiderati” da Dio. Giobbe sogna di poter in qualche modo suscitare nella morte un nuovo desiderio di Dio per lui… sogna che Dio languisca per lui, senta la sua mancanza. Può esserci un pensiero più audace e più bello di questo? “Io vorrei che tu mi cercassi come una madre cerca il figlio che è scomparso, e mi chiamassi in vita un’altra volta, perché io ti manco”. Sì - dice Giobbe: noi possiamo suscitare la nostalgia di Dio, la sua attesa e il suo desiderio, che corrispondono alla nostra nostalgia, alla nostra attesa e al nostro desiderio.