Culto 11/11/2018 - 3° ultima dell'anno liturgico

di Ruggero Marchetti pubblicato il 11/11/2018 21:02:43 in culto 338

Giobbe 14 , 1 – 6

L’uomo, nato di donna, vive pochi giorni, ed è sazio d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non dura. E sopra un essere così, tu tieni gli occhi aperti e mi fai comparir con te in giudizio! Chi può trarre una cosa pura da una impura? Nessuno. Se i suoi giorni sono fissati, e il numero dei suoi mesi dipende da te, e tu gli hai posto un termine che egli non può varcare, distogli da lui lo sguardo, perché abbia un po’ di tranquillità, e possa godere come un operaio la fine della sua giornata.

Un pensiero dalla predicazione

Mentre rileva tutta la sua fragilità, Giobbe mette in luce quella grandezza dell’essere umano per cui noi siamo “unici” in tutto l'universo. Ne parla – ed è fantastico - con le medesime immagini di cui abbiamo visto la faccia negativa, e che invece hanno in sé, anche il “diritto della medaglia”, il lato positivo. Io sono, ha detto Giobbe, un “uomo, nato di donna, che vive pochi giorni, ed è sazio d’affanni”. Ma proprio perché so che la mia vita fugge via troppo in fretta e che la mia esistenza è segnata d'affanni... proprio per questa consapevolezza che mi strazia, io sono superiore ad ogni altra creatura che conosco. Un animale nasce, vive il suo tempo e muore così, senza che quasi se ne renda conto. La sua esistenza non è affannosa, non sa se la sua vita è breve o lunga, non prova il mal di vivere che io provo... Io sono inquieto e soffro, perché so quello che lui, l'animale, per fortuna sua non sa. È la nostra tragedia di esseri umani, ma è anche la nostra grandezza.

Giobbe ci insegna, con questo suo lamento, che essere uomini e donne significa essere degli “umili megalomani”. E per insegnarcelo usa delle immagini “doppie”, insieme negative e positive: “L'uomo è come un fiore”. E il fiore sboccia e subito “è reciso”, e subito “appassisce”... ma cosa c'è di più bello, di più sfolgorante, di un fiore?... “L'uomo è come un'ombra, e non dura”... È come l'ombra di un uccello in volo... ma cosa c'è di più inebriante e di più fantastico di un volo libero nell'azzurro e nel vento?

Noi allora siamo un impasto d'oro e fango, di umiltà e giusto orgoglio. Siamo “finiti”, ma insieme profumiamo d'infinito... In qualche modo siamo degni, pur nella nostra indegnità, di essere al centro dello sguardo di Dio. Per questo, l'osservazione che Giobbe rivolge poi al Signore: “E sopra un essere così, tu tieni gli occhi aperti e mi fai comparire con te in giudizio!”, se esprime il desiderio d'essere liberato dallo sguardo minaccioso di Dio (e è un desiderio che sarà ribadito anche alla fine: “Distogli da lui lo sguardo, perché abbia un po' di tranquillità”...), nasconde però insieme anche una sorta di compiacimento: “L'essere umano, io, e nessuna altra creatura, né il sole né la luna né le stelle, io sono l'oggetto dello sguardo e del giudizio dell'Altissimo; sono nei suoi pensieri, anche se quei pensieri sono per me un mistero e il suo sguardo mi trafigge e mi fa stare male...

Così, in questo contesto di timore e sofferenza, ci vengono alla mente le parole del sereno e stupito Salmo 8: “ Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tua dita, la luna e le stelle che tu hai disposto, che cos'è l'uomo perché tu lo ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura? Eppure l'hai fatto solo di poco inferiore a Dio”.

Le medesime immagini... quasi i medesimi pensieri della pagina di oggi di Giobbe. Con Dio il dolore ci mette molto poco a farsi gratitudine...


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