APOCALISSE 21, 1- 8
In questa pagina che ci fa contemplare “un nuovo cielo ed una nuova terra”, quello che soprattutto ci colpisce, è il Dio “presente”: è quel “Dio-con-gli-uomini”, che parla e annuncia il “nuovo” che ha già fatto. Perché per noi oggi, al contrario, Dio è invece il grande assente, e non ci parla.
A molti di noi non è dato di vivere una fede tranquilla, ma una fede che sente dolorosamente il silenzio di Dio, la sua assenza dalla vita degli uomini e dalle loro angosce (pensiamo solo al tempo che viviamo), e ne è ferita. Per tanti, me per primo, la fede è pregare ogni giorno con le parole dal padre del giovane epilettico del vangelo di Marco: “Signore, io credo, ma tu vieni in aiuto alla mia incredulità!” (9, 24). È la tentazione dell’incredulità che spesso nasce dall’esperienza che il cielo sembra chiuso. Se l’autore dell’Apocalisse ha visto il cielo aperto innanzi a lui, il nostro cielo è serrato, e è pesante. Forse perché non sappiamo più vedere… perché non abbiamo gli occhi buoni. O forse, più semplicemente, perché non li solleviamo più - gli occhi - verso il cielo… E comunque anche quando li alziamo, i nostri occhi sono sospettosi… occhi che non contemplano, ma spiano diffidenti...
Il punto è forse questo: Dio ci sembra indifferente verso gioie e dolori, perché noi siamo indifferenti verso le gioie ed i dolori altrui; ci sembra silenzioso, perché noi non sappiamo più dire una parola affettuosa, partecipe, che dia e che condivida serenità e consolazione. Le nostre bocche si sono fatte mute, i nostri occhi si sono disseccati: chi sta bene è tentato dal cinismo e chi sta male dalla disperazione.
Che fare? Questa visione dell’Apocalisse ci fa dono di un punto di contatto tra il nostro mondo e la nuova creazione, ci offre una via d’uscita verso la “nuova Gerusalemme”, là dove, è detto: “Egli… asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”. Ricordate la parola di Gesù: “Beati coloro che piangono, perché saranno consolati” (Matteo 5,4)? Forse, per aver parte alla nuova creazione, in questo mondo che non sa più piangere né d’un vero dolore né d’una vera gioia, ma solo d’amarezza, d'angoscia e di dispetto, dobbiamo rimparare a gustare la dolcezza salata delle lacrime! Soltanto gli occhi lucidi d’un luccichio che sale su dal cuore ci renderanno umani, e perciò degni di stare al cospetto del Signore. E lui, allora, si chinerà su noi e con un gesto eterno d’amore e tenerezza ci asciugherà le gote. E capiremo che l’assenza di Dio che ci feriva era solo apparente, che Dio è presente nel cuore stesso della nostra umanità. Che la mano che si stende verso le nostre lacrime, in realtà ha sempre tenuto con forza dentro sé le vicende del mondo, e in esso ogni vicenda di ogni creatura umana. Capiremo che, di là dal nostro sconsolato fatalismo, le realtà presenti, così impregnate di sofferenza e angoscia, non sono affatto le ultime realtà. Che Dio, in Cristo Gesù morto e risorto, “ha vinto e ancora vincerà” (cfr Apocalisse 6,2).
Il pastore