2 Timoteo 1, 1 - 12
Paolo, apostolo di Cristo Gesù per v olontà di Dio, secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù, a Timoteo, mio caro figlio, grazia, misericordia, pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Signore.
Ringrazio Dio, che servo come già i miei antenati con pura coscienza, ricordandomi rego larmente di te nelle mie preghiere giorno e notte; ripenso alle tue lacrime e desidero intensamente vederti per essere riempit o di gioia. Ricordo infatti la fede sincera che è in te, la quale a bitò prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice, e, sono c onvinto, abita pure in te. Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani. Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezz a, ma di forza, d'amore e di autocontrollo. Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di D io. Egli ci ha salvati e ci ha rivolto una santa chiamata, n on a motivo delle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la grazi a che ci è stata fatta in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma che è stata ora manifestata con l'apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in l uce la vita e l'immortalità mediante il vangelo, in vista del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e dottore. È anche per questo motivo che soffro queste cose; ma non me ne vergogno, pe rché so in chi ho creduto, e sono convinto che egli ha il potere di custodire il mio deposito fino a quel giorno.
Un pensiero dalla predicazione
L a seconda cosa bella per cui l’Apostolo esprime la sua riconoscenza ’è la famiglia di Timoteo: sua nonna Loide e sua madre Eunice, che Paolo ha conosciuto di persona e la cui “fede sincera” ha alimentato quella del suo giovane collaboratore. Del padre non si parla; dagli Atti degli Apostoli (16,1), sappiamo che Timoteo era figlio di una don na ebrea credente e di un greco, che forse al tempo della lettera era morto, e che comunque non era stato coinvolto nella sua educazi one cristiana, di cui probabilmente si era incaricato direttamente l’Apostolo, e questo spiegherebbe perché si rivolge a Ti moteo chiamandolo “mio caro figlio”. In ogni caso, questo ripercorrere la discendenza di Timoteo attraverso la sua linea materna è s ignificativo; rimanda molti di noi alla loro esperienza familiare: per quanti infatti la trasmissione della fede è avvenuta proprio ad opera della madre o della nonna! E se oggi il passaggio della fede da una generazione all’altra è, nelle nostre chiese, i n forte cr isi, forse è proprio perché sono venute meno quelle luminose figure femminili dalla fede sincera e sinceramente vissuta, le cui giornate erano scandite dalla preghiera, dalla lettura della Bibbia e dalla partecipazione alla vita della chiesa.
Ma ritorniamo a quell’antica mamma e a quell’antica nonna che Paolo chiama per nome. Egli sa bene che la “fede sincera” di Timoteo è venuta a lui come un bellissimo dono proprio da Loide ed Eunice. Da loro inizia quella bella catena in cui Paolo si è inserito anche con l’imposizione delle mani che lo ha costituito ministro della chiesa, e che è la speranza dell’Apostolo proseguirà e si dilaterà nella fede di numerosi altri credenti.
Ma quella catena è un altro dono per cui Paolo ringrazia viene da an cora più lontano, arriva da Israele. Abbiamo detto che il libro degli Atti ricorda Eunice come “ebrea credente”, e sappiamo anche che Timoteo aveva preso così sul serio la sua origine ebraica da avere chiesto la circoncisione, così come sappiamo che Paolo, che pure s’era opposto con tutte le sue forze alla circoncisione di Tito che era un greco al cento per cento, non ha avuto problemi, proprio sulla base della sua discendenza materna da Israele, a far circoncidere Timoteo. E tanto Paolo quanto Timoteo sono rimasti l egati ad Israele, riconoscenti della loro origine, e per la Legge, e per le profezie che hanno trovato in Cristo il pieno compimento. Contrariamente a quello che spesso si pensa, Paolo infatti non ha mai considerato la sua fede in Gesù come una b rusca rott ura con la religione dei suoi padri e delle sue madri, ma piuttosto appunto come il compimento. Così, parla di sé come di un “fariseo figlio di farisei” che continua a servire “il Dio dei padri… credendo in tutte le cose che sono scritte nella le gge e nei profeti” (cfr Atti 23,6; 24,14). Ciò che egli ha combattuto non è mai stata la legge in sé stessa, da lui sempre considerata come un dono di Dio, ma l’interpretazione distorta della legge che tanti in Israele avevano così assolutizzata da farle q uasi prend ere il posto di Dio, e avevano anche “arricchito” in modo indebito con una serie infinita di regole e tradizioni umane. Un commentatore delle lettere a Timoteo ha una bella espressione: scrive che in esse è come se Paolo dica al suo “caro nella fed e: “Io sono ebreo, tu sei ebreo, e non lo siamo di meno essendo diventati tutti e due cristiani”.
Il pastore