Culto 31/05/2020 - Pentecoste (in tempo di coronavirus)

di Ruggero Marchetti pubblicato il 30/05/2020 00:00:00 in culto 467

ESODO 20 , 1 - 21

I “dieci comandamenti”, sono in realtà un sogno: il sogno ad occhi aperti del Signore di una comunità fraterna, in cui ognuno sia libero. Libero dalla paura degli altri, libero per amare e per essere amato. Ma perché questo sogno di libertà non sia utopia, c'è bisogno di Dio. Israele deve imparare a fidarsi di lui e ad affidarsi a lui, e a nessun altro! Ecco allora perché le prime tre parole – che non a caso sono tre divieti - richiamano Israele proprio a questo: ad affidarsi solamente a lui.

thumbnail article In particolare la prima parola - il divieto di “avere altri dèi” - è la parola per eccellenza “dell’affidamento”: se Dio ha fatto per te quello ha fatto, è perché ti ama, e ora vuole da te lo stesso amore. Davanti ad un amore così, sarebbe assurdo coltivare “altri” amori; e neppure c’è spazio per un rapporto che sia immiserito e bloccato in un’immagine davanti a cui prostrarsi oppure in un incantesimo da pronunciare, ed ecco allora il secondo divieto di ogni rappresentazione di Dio, e il terzo che proibisce di trasferire il nome santo di Dio su di una qualsiasi“vanità”. Se Dio ti ha liberato è perché lui è sovranamente libero. E come puoi pensare di imprigionarlo in un’immagine o in una formula, per usare ai tuoi scopi il suo potere? No. Dio ama nella libertà e non vuole menzogne, né manipolazioni nell’amore.

E quest’amore vive nella storia, e crea la storia: la storia che Israele adesso potrà vivere nel correre delle sue generazioni. È il senso dell’affermazione che chiude il secondo comandamento: “Io punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano”. C’è, dietro a queste parole che lì per lì ci urtano, l’idea d’appartenenza. In questa storia che unisce padri e figli nessuna generazione può venire meno alla solidarietà: le conseguenze delle scelte dei padri ricadranno sui figli. Però, fra “punizione” e “bontà” di Dio c'è un meraviglioso “squilibrio”: ”Punisco l’iniquità... fino alla terza e alla quarta generazione... e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano...”. Vedete?… ”verso quelli che mi amano”: tutto è sempre centrato sull’amore!

Questa frase sulle “generazioni” c’introduce alla parte centrale del decalogo, che comprende i comandamenti dell’osservanza del sabato e dell’onore da dare ai genitori. Come infatti le generazioni sono legate al trascorrere del tempo, così queste due altre parole del Signore trattano anch’esse del “tempo”. Ricordano a Israele che Dio è anche come colui che gli dona il tempo.

Dona anzitutto a ognuno il tempo della sua vita personale: i sei giorni in cui l’israelita “farà tutto il tuo lavoro” e il settimo che è “il giorno del riposo, consacrato al Signore”. In quel settimo giorno ti asterrai dal lavoro, e così capirai che il tuo tempo viene da lui ed appartiene a lui. E vivrai il dono della riconoscenza. Anche il comandamento sull’“onore da rendere ai genitori” ha a che fare col tempo. Diversamente da quello che si pensa, il figlio non deve “onorare padre e madre” perché questi lo hanno messo al mondo, ma perché sono l’ultimo anello della catena che, procedendo a ritroso lungo i secoli, lo collega ad Abramo, e in questo modo a Dio che l'ha chiamato ad essere il progenitore d’Israele. In - somma, io debbo onorare i miei vecchi, perché è grazie a loro che appartengo al popolo di Dio, e vivo della sua alleanza, delle sue promesse, della sua benedizione.

La terza e ultima parte è dedicata allo spazio della comunità, cioè ai suoi rapporti interni. Ecco le quattro parole che regolano le relazioni reciproche fra i figli di Israele. Quattro cose debbono essere particolarmente tutelate perché sia possibile una vera, concreta fraternità: la vita, il matrimonio, la proprietà e l’onore sociale. Si tratta allora di “non uccidere”, di “non sottrarre la moglie a un altro uomo”, di “non rubare”, e di “non deporre il falso in tribunale”. Quattro comandamenti essenziali.

Ma Dio conosce bene i figli del duo popolo, sa che sono poveri esseri umani come tutti noi. E sa che queste quattro “parole essenziali” non sono ancora sufficienti a preservarli dal logoramento prodotto dai conflitti interpersonali. Perché quelle quattro parole si riferiscono ad azioni concrete e ben riconoscibili, ma c’è un'altra realtà che può turbare i rapporti all’interno della comunità, una realtà agendo “dal di dentro” e da dentro: è l'“invidia”. L'ultima parola, il divieto di “desiderare”, è allora la proibizione dell’invidia; perché l’invidia disgrega il tessuto della società. E Dio non vuole la disgregazione della vita sociale del suo popolo, per lui sogna e vuole la fraternità!

Il pastore


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