Culto 29/03/2020 - Judica Quarta del tempo do Passione (in tempo di coronavirus)

di Ruggero Marchetti pubblicato il 28/03/2020 23:25:44 in culto 384

EZECHIELE 37, 1 - 14

Il testo di Ezechiele è come una parabola. Il profeta racconta una visione che il Signore gli ha concesso di avere, per ridare coraggio al suo popolo in esilio, e non un fatto storico. Non c’è mai stata una valle colma d’ossa, e nel suo tempo, nessuno è mai risorto.

Ma quel sogno di liberazione espresso con l'immagine di una risurrezione mai avvenuta ha alimentato il bisogno di “speranza contro ogni speranza” degli Ebrei deportati, e alimenta il nostro bisogno. Lo fa in particolare in questi giorni.

Ho parlato di un “incubo” vissuto da Ezechiele, e ho accennato ai nostri incubi che ci fanno paura, ma che poi si dileguano al cessare del sonno. In questi giorni stiamo vivendo un incubo da cui non possiamo svegliarci perché non è un brutto sogno, ma è una realtà terribile. Siamo come gli Ebrei del tempo di Ezechiele. Ci sentiamo un po’ tutti “morti dentro”. Ci siamo ritrovati il paese più contagiato del mondo, per un’epidemia che ogni giorno fa strage. E siamo diventati, a tempo indefinito, reclusi in casa nostra, in preda alla paura… in uno stato di continua attesa che qualche cosa cambi… come dicono tanti: che si accenda una luce in fondo al tunnel. Ma per ora la luce non si vede…

Si vedono e si sentono, chi ha il coraggio di sentirle, cose che ti stringono il cuore. Qualcuno ha definito questo contagio il contagio della solitudine, della lacerazione dei contatti umani. Quando ti ammali e vengono a pigliarti a casa tua per portarti in ospedale, non vedi il volto di chi ti porta via: i medici, gli infermieri, i portantini – come è giusto che sia - hanno tutti la mascherina; ma già questa assenza forzata di un sorriso, di un ammiccamento, dev’essere tremenda per l’infermo. E poi nell’ospedale ancora peggio: soltanto tute che sembrano scafandri, maschere, occhiali, guanti. I tuoi cari non li puoi più vedere a causa del contagio, e prima che ti intubino - se debbono intubarti - tu vivi nel terrore di non vederli più, vivi il terrore di non svegliarti più, l’orrore di una morte solitaria. Tutto questo, davvero è disumano, anche se certo, in questa disumanità è presente una meravigliosa umanità: l’umanità di chi sta accanto a te nel suo scafandro, e vorrebbe sorriderti, vorrebbe accarezzarti, e è costernato di non poterlo fare, e la tua umanità bisognosa di avere e dare affetto. Ancora ieri mi si sono inumiditi gli occhi quando ho sentito uno psicologo dire che uno degli infermieri che lui assiste (perché in quelle condizioni gli infermieri ed i medici hanno bisogno di assistenza psicologica) gli ha raccontato che un malato che stava intubando, gli ha fatto una carezza sugli occhiali che indossava. Quando, se Dio vorrà, ricorderà questo periodo così brutto, ricorderò quel racconto e quel gesto, e lo farò con un profondo senso di riconoscenza: una testimonianza di semplice, grande umanità. Il grido silenzioso della vita e dell’amore nel tempo dell’angoscia e della morte.

Se Dio c’è in questi giorni, se è presente, e io credo profondamente profondamente che ci sia più che mai, è presente in quella carezza e nel racconto di quella carezza. E con Dio c’è il suo Spirito. Già adesso opera in noi, e se stiamo scoprendo con terrore tutta la nostra vulnerabilità… se la nostra carne non ci fa più solo pensare ai tatuaggi ed ai lifting, ma ci inchioda fatalmente alla nostra mortalità, lo Spirito di Dio ci fa dono già adesso, se lo lasciamo fare, di una promessa di una ripartenza della vita e, con lei, di una libertà ritrovata. Perché poi la libertà in fondo è proprio questo: lasciarsi determinare dal futuro di Dio, e non dalle catene delle nostre paure e delle nostre angosce, e nemmeno dagli incubi, anche quando sono terribilmente reali come quello che stiamo vivendo.

Il pastore


Il culto solo con la traccia audio.

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